17 Novembre 2022

“Non ho resistito, mi è presa l’ansia e me ne sono andato dall’ospedale, succede spesso che mi rendo conto che sto facendo la cosa sbagliata, ma niente di me in quel momento è d’accordo col restare. Mamma riesci a darmi una mano? Non ci sto dentro.”

È un whatsapp di mio figlio Giacomo, pochi minuti dopo aver lasciato l’ambulatorio senza fare la psicoterapia, quando ancora tentava di seguirla. Giacomo sa che il suo Disturbo Borderline di Personalità sta distruggendo la sua vita e vorrebbe curarsi, ma non ce la fa.

Uno dei maggiori problemi nel trattamento dei disturbi psichici è la difficoltà di adesione alla cura. Se sei genitore, figlio, compagno di una persona con disturbo psichico, conosci bene questa angoscia che ti segue giorno e notte: il tuo caro rifiuta la diagnosi o non riesce a mantenere la costanza nella cura che gli servirebbe (terapia farmacologica o psicoterapia), ma – poiché è maggiorenne e “libero di decidere” – è abbandonato a se stesso. Forse è pericoloso per sé e per gli altri, in certi casi commette reati, entra ed esce da comunità, ospedali e carceri, senza un futuro. Con questa angoscia, devi anche affrontare la vita di tutti i giorni: lo stigma, le domande (“perché non lo fate curare?”), i vicini insofferenti se non terrorizzati, le crisi, le urla, le violenze, il 118, le visite in comunità, ospedali, carcere. Anche tu ti senti senza futuro.

In Italia non ci sono leggi focalizzate sulla recovery, cioè il processo complesso e non lineare che porta la persona a una propria collocazione autonoma all’interno della società. Per la nostra legge, nessuno è veramente responsabile di questo complesso percorso, se non il paziente stesso: la responsabilità dei diversi attori che lo “prendono in carico” nelle istituzioni di volta in volta coinvolte (Aziende Sanitarie/Ospedaliere, Comuni, Forze dell’Ordine, Magistratura, …) è limitata all’erogazione dei propri “servizi” e dura solo per il momento in cui sono a contatto con il paziente.

A nessuno è richiesto di fare davvero la “regia”.

A dire il vero, un regista ci sarebbe: il Centro di Salute Mentale, che nei casi più complessi dovrebbe individuare un “Case Manager”. Purtroppo, però, troppo spesso il principio di autodeterminazione funge da alibi: l’operatore si limita a restare in attesa che il paziente si presenti di sua iniziativa presso la struttura, negli orari e nei modi prestabiliti, e segua le sue disposizioni con costanza e determinazione. Se il paziente non lo fa, si assume che sia perché è “libero di decidere”. E quindi viene abbandonato a se stesso.

Fortunatamente esistono in Italia numerosi casi di buone prassi. Ad esempio nei CSM di Trieste “prendere in carico” è inteso come perseguire attivamente gli interessi del paziente, assicurandosi anche che le altre istituzioni adempiano ai loro doveri. Il rapporto terapeutico non è offerto solo a chi spontaneamente lo chiede e vi aderisce con continuità, ma il CSM lo propone a tutti coloro che ne hanno bisogno, lo sostiene attivamente, se necessario lo negozia. Questo richiede grande fantasia nel ridefinire tempi, luoghi e modalità dell’intervento. A Trieste considerano grandi risorse la famiglia estesa, gli amici, i volontari, la rete sociale nel suo insieme, oltre a figure professionali diverse da quelle classiche di psichiatra, psicologo e infermiere.

Alcuni esempi che rendono bene l’idea? Una figura professionale meno specializzata (e quindi meno costosa…es. i diplomati degli Istituti Professionali Socio-Sanitari) che affianca i pazienti “facendo loro compagnia” nella quotidianità (un caffè, una partita a calcio,..), fino a guadagnare la loro fiducia e ad accompagnarli al CSM; un vicino di casa che fa da tramite tra il CSM e il paziente; fino al caso di una psichiatra che ci raccontava di essere andata dal parrucchiere insieme ad una sua paziente, che non riusciva ad “intercettare” in altro modo…

Sfortunatamente, nel nostro Paese le buone prassi scaturiscono solo da particolari eredità culturali (come a Trieste), oppure da sensibilità ed etica del singolo operatore. Non è la legge a guidare la presa in carico dei pazienti con difficoltà di adesione alla cura, quindi non è un’opportunità offerta a tutti. In Italia, la cura non è un diritto per tutti.

In altri Stati, invece, la difficoltà di adesione alla cura è considerata non un impedimento al trattamento bensì parte della patologia, e si ritiene che il paziente abbia diritto a essere curato anche quando non riesce ad aderire alla terapia da solo. Il consenso non è punto di partenza bensì di arrivo di una proficua attività terapeutica.

Vi propongo questo video: mostra un esempio dell’approccio al problema negli Stati Uniti, e anche in Europa ne esistono di molto simili (es. in Gran Bretagna e Paesi Bassi): https://youtu.be/1tDNhG9wfSY .

È un po’ una provocazione: non è detto che un approccio del genere sia adatto alla realtà e alla cultura italiane, però il problema esiste anche da noi e merita attenzione.


Articolo realizzato da Maria,
per il progetto “Attivismo Digitale